Se n’è andata senza lasciare traccia, 2015

Se n’è andata senza lasciare traccia, 2015
Basamento in ferro, lavagna luminosa, mappa cartacea, testo prestampato e proiezione
Installazione dimensioni ambiente

 

 

Studio di prospettiva

Passeggiando tra i viali di una Certosa cerchiamo di cogliere, con lo sguardo rivolto agli ornamenti, ai fiori e alle fotografie di lapidi così simili tra loro, ipotetici caratteri, frammenti di personalità e di esistenze. Quella folla di vite passate che paradossalmente si addensa in ogni cimitero, seguendo le regole che la nostra civiltà si è data, induce quasi un sentimento di solidarietà. Com’è noto Ugo Foscolo, chiedendosi se il fatto di collocare i resti di un corpo in un’urna o di seppellirli ai piedi dei cipressi potesse rendere al defunto la morte più sopportabile, argomentava e concludeva che le tombe non servono affatto ai morti ma ai vivi.
Quello dove possiamo rivolgere “direttamente” pensieri e parole ai nostri cari è un nostro luogo e, se manca, il vuoto ci è ancora più doloroso e difficile da metabolizzare, tanto più se non sappiamo nemmeno come e quando questa sia occorsa. In casi particolari, l’impossibilità di dare sepoltura a una persona si esaudisce nella raccolta di reliquie, nell’enfatizzazione di un vuoto, nel rendere sacra un’area in cui sentiamo esserci qualcosa di non visibile. È a una situazione di questo tipo che fa riferimento il lavoro di Laura Bisotti.

Una serie di indizi lascia intuire che all’origine di Se n’è andata senza lasciar traccia c’è una dolorosa vicenda autobiografica. Illuminata sotto i nostri occhi è esposta la mappatura eseguita dalla Protezione Civile di Piacenza durante la ricerca di una donna scomparsa nell’agosto del 2011, un campo d’azione che viene dichiarato privo di sue tracce, in contrasto visivo con la ricchezza di segni che nella cartina danno misura alle relazioni spaziali. Con tutta probabilità qui è morta una persona e qui il suo corpo potrebbe ancora essere nascosto. Mentre il nostro sguardo oscilla dal pavimento al soffitto, entriamo in un processo di sublimazione: in basso, con la postura che terremmo al cospetto di un sepolcro concreto, osserviamo la mappa e i suoi riferimenti oggettivi; in alto leggiamo invece gli stessi dati ma polverizzati e trasformati in una costellazione, luogo indefinito dove i nostri pensieri vanno a collocare i morti. Da un lato quindi c’è il simulacro di una pietra tombale, dall’altro l’ubicazione celeste dell’anima che non ha spazialità. La mappa a questo punto non è più un semplice strumento di misurazione delle relazioni spaziali interne a un territorio, ma il simbolo dei limiti materiali del nostro essere nel mondo. Ciò che emerge in questo lavoro è l’attimo in cui attribuiamo un significato trascendente a dei dati secchi e, nella loro fredda precisione, insufficienti. È il momento in cui mettiamo in crisi la nostra esigenza di valutare lo spazio per allargare la nostra percezione all’incommensurabilità.

Massimo Marchetti
Critico d’arte

Testo dal catalogo della mostra “Il ritratto”, galleria San Fedele, via Hoepli 3 a-b, Milano, 22 settembre-17 novembre 2015

 

 

 


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